Dott.ssa Cecilia Caravaggi, psicologa e psicoterapeuta sistemico-relazionale

A volte la vita somiglia ad uno scherzo, ad una condanna, ad una perversa prova di sopportazione in cui ci viene messo davanti sempre lo stesso cruccio, lo stesso tipo di persone, le stesse dinamiche e gli stessi schemi, in cui giungiamo sempre alle stesse conclusioni e in cui, a prescindere dalle condizioni iniziali, il finale è sempre lo stesso. Ci sono infatti meccanismi in cui si continua a cadere pur cambiando i tempi, i contesti, i rapporti: “Possibile che sono sempre io quelle che deve mediare/capire/prendersi cura/sollevare gli animi/proteggere/dire le cose come stanno ecc.?” Possibile sì, soprattutto nei casi in cui chi ci conosce da sempre snocciola con gran facilità tutta una serie di aneddoti che provano di “esser sempre statə” una bambina pacifica/comprensive/più grande della sua età/allegre/ribelle. Destino o accanimento divino? O siamo “semplicemente” nate per questo?

A volte nessuna delle tre, a volte è solo che quei terreni scivolosi, quelle salite impervie, quei ruoli carichi di responsabilità o di mortificazioni, sono tutto ciò che conosciamo, da sempre, sono le uniche basi su cui sappiamo tenerci in piedi, per quanto faticose, scomode e svantaggiose per sè siano. Se infatti non esiste “il gene del ruolo”, esiste comunque l’incarico che fin da subito impariamo ad assumerci dentro casa, incarico che può essere:

  • Chiesto esplicitamente: sono i casi in cui la famiglia dice chiaramente cosa si aspetta da noi: che siamo buone, decise, coraggiose, all’altezza del cognome che portiamo, brillanti, comprensive.
  • Preso spontaneamente: sono i casi in cui (ufficialmente) nessunə ha mai chiesto nulla, ma in cui “ci si è sentite comunque” di adottare determinati atteggiamenti.

Nei casi in cui certi compiti si “assumono spontaneamente” ci sono delle situazioni che finiscono per essere dei potenti attivatori e stabilizzatori:

  • Vedere altre in difficoltà: genitore o genitori in affanno per motivi esterni (es. disagio economico, molto lavoro) o interni (es. lutto, depressione).
  • Parenti “cattive”: presenza di figure negative (es. un altre figliə, unə dei genitori, nonne o zie) che fanno soffrire unə o entrambe genitori.
  • Nessunə altre a farsi avanti: ci si accorge di una lacuna, di qualcosa che andrebbe fatto ma che nessunə fa (es. ribellarsi, consolare, proteggere).

Prendersi determinati ruoli in casa fa sì che si cresca imparando molto bene a:

  • Capire: lo stato emotivo, le necessità e le motivazioni altrui, anche quando illogiche o dannose per sé, a volte si impara anche a prevedere gli effetti collaterali di alcune decisioni.
  • Attivarsi per altre: sempre spontaneamente, sempre ogni volta che si percepisce una necessità, arrivando anche a fare cose al posto loro.
  • Prendersi responsabilità: anche se competerebbero altre, anche “gratis”, anche gravi, anche incongrue rispetto al rapporto, anche molto più grandi di sé.

… e che non si impari molto bene ad:

  • Ascoltarsi: le proprie emozioni, desideri, volontà autentiche spesso rimangono un vero mistero, non è raro che invece di sentirsi triste o arrabbiate si sentano dolori fisici.
  • Attivarsi per sé: agire per sé stesse, per migliorare la propria vita o condizione, è associato ad un senso di imbarazzo o di egoismo
  • Rispettarsi: mettere dei confini, dire di no, fermarsi, fare un passo indietro, allontanarsi da situazioni nocive: tutto questo è molto difficile

Si cresce quindi e queste sono le basi di questa crescita, sono ciò che conosciamo e che riconosciamo come familiari quando ci vengono riproposte, come un vecchio maglione che sappiamo portare anche se ci pizzica da tutte le parti e che quindi indossiamo ancora e ancora, anche quando potremmo ormai lasciarcelo alle spalle e cercare qualcosa di meglio per noi e per la nostra pelle. Infatti, quando ci si trova davanti qualcunə che ci ripropone quelle stesse dinamiche e “ci mette” in quello stesso ruolo:

  • Non ci troviamo “niente di strano” essendo una condizione relazionale in cui siamo abituate a stare da sempre.
  • Il ruolo in cui ci ritroviamo di nuovo è anche l’unico in cui ci sentiamo “brave” e con cui sentiamo di dimostrare affetto.
  • In nome di ciò che “non si è imparato molto bene a fare”, ruoli alterativi a questo metterebbero a disagio, in difficoltà.

Ed è così che anche fuori dalla famiglia ci si ri-infila nel solito ruolo, ma dopo un po’ inizia a pesare perché lo schema in cui si cade porta con sé due caratteristiche scomodissime: la prima è una visione parziale di sé in quanto alcune parti rimangono nascoste lasciando il dubbio sul fatto che siano anch’esse amabili o meno, la seconda è una mancanza di reciprocità dal momento che l’altre non è in grado di fare per sé (e quindi tantomeno per noi) quello che noi facciamo per ləi. E questo succede spesso, in rapporti di qualsiasi tipo, tanto che con il tempo ci si inizia a sentire stupide a “non imparare mai” dall’esperienza. Eppure, tutto questo non è una condanna, anche se uscirne non è facile perché richiede diversi compiti emotivamente difficili da affrontare:

  • Riconoscere il proprio contributo: spesso e volentieri ci si prende un determinato incarico prima ancora che l’altre lo richieda, lo si fa in automatico.
  • Identificare l’origine: mettere in discussione la propria storia e ciò che si è ricevuto (e non) dalla propria famiglia d’origine non è semplice.
  • Tentare qualcosa di nuovo: un nuovo modo di stare al mondo bisognerà inventarselo da sé, con tutta l’incertezza e i rischi che questo comporta, soprattutto per i cambiamenti che potrebbe portare nei rapporti costruiti fino a questo momento.

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