Riabilitazione pre e post protesi d’anca: perché è fondamentale affidarsi a un fisioterapista

Perché è importante fare fisioterapia

L’anca fa male da mesi. Prenoti una visita ortopedica, e alla fine arriva la diagnosi: serve una protesi. L’intervento è fissato tra due o tre mesi. E nel frattempo?

L’operazione di protesi d’anca, come quella di ginocchio, è tra le più comuni in ambito ortopedico. Viene indicata in casi di artrosi avanzata, necrosi avascolare, fratture o gravi limitazioni funzionali e dolorose. Se eseguita nei tempi giusti e con le corrette indicazioni, può offrire risultati eccellenti.

Ma attenzione: non basta operarsi per stare bene. Il successo dell’intervento dipende anche, e soprattutto, dalla riabilitazione fisioterapica, sia prima che dopo l’operazione.

La fisioterapia pre-operatoria: un’opportunità spesso sottovalutata

Una volta fissata la data dell’intervento, molti pazienti restano semplicemente in attesa. Ma questo è un errore. Iniziare subito un percorso fisioterapico può fare una grande differenza:

  • Migliora il tono muscolare: l’intervento, per motivi neurofisiologici, causa spesso un rapido calo di forza e massa muscolare. Rinforzare preventivamente i muscoli, soprattutto glutei e quadricipiti, aiuta a limitare questo effetto.
  • Riduce rigidità e aderenze: un’articolazione flessibile prima dell’intervento sarà più facile da recuperare dopo. Si prevengono così limitazioni funzionali e complicanze legate alle cicatrici interne.
  • Riduce l’ansia: sapere cosa aspettarsi, come muoversi e come affrontare le prime fasi del recupero dà al paziente maggiore fiducia e sicurezza.
  • A volte evita l’intervento: in alcuni casi, una buona fisioterapia può ridurre il dolore e migliorare la mobilità al punto da rendere per il medico superflua l’operazione.

E dopo l’intervento?

Dopo l’operazione, soprattutto nelle prime settimane, il paziente viene spesso seguito da fisioterapisti in ospedale o in ambito domiciliare. Ma il recupero completo richiede un lavoro costante e prolungato nei mesi successivi:

  • È fondamentale non interrompere il percorso riabilitativo troppo presto.
  • Serve un programma personalizzato che accompagni il paziente verso il ritorno a una vita attiva, autonoma e senza dolore.

Di questo parlerò più approfonditamente in un prossimo articolo.

Conclusione

La fisioterapia, eseguita in modo mirato e con la giusta continuità, è il ponte tra la sala operatoria e il ritorno alla quotidianità. Affidarsi a un fisioterapista esperto non è un dettaglio: è una parte essenziale del trattamento.

Sempre la stessa storia o “perché non imparo mai”? Schemi relazionali ricorrenti e come uscirne

Dott.ssa Cecilia Caravaggi, psicologa e psicoterapeuta sistemico-relazionale

A volte la vita somiglia ad uno scherzo, ad una condanna, ad una perversa prova di sopportazione in cui ci viene messo davanti sempre lo stesso cruccio, lo stesso tipo di persone, le stesse dinamiche e gli stessi schemi, in cui giungiamo sempre alle stesse conclusioni e in cui, a prescindere dalle condizioni iniziali, il finale è sempre lo stesso. Ci sono infatti meccanismi in cui si continua a cadere pur cambiando i tempi, i contesti, i rapporti: “Possibile che sono sempre io quelle che deve mediare/capire/prendersi cura/sollevare gli animi/proteggere/dire le cose come stanno ecc.?” Possibile sì, soprattutto nei casi in cui chi ci conosce da sempre snocciola con gran facilità tutta una serie di aneddoti che provano di “esser sempre statə” una bambina pacifica/comprensive/più grande della sua età/allegre/ribelle. Destino o accanimento divino? O siamo “semplicemente” nate per questo?

A volte nessuna delle tre, a volte è solo che quei terreni scivolosi, quelle salite impervie, quei ruoli carichi di responsabilità o di mortificazioni, sono tutto ciò che conosciamo, da sempre, sono le uniche basi su cui sappiamo tenerci in piedi, per quanto faticose, scomode e svantaggiose per sè siano. Se infatti non esiste “il gene del ruolo”, esiste comunque l’incarico che fin da subito impariamo ad assumerci dentro casa, incarico che può essere:

  • Chiesto esplicitamente: sono i casi in cui la famiglia dice chiaramente cosa si aspetta da noi: che siamo buone, decise, coraggiose, all’altezza del cognome che portiamo, brillanti, comprensive.
  • Preso spontaneamente: sono i casi in cui (ufficialmente) nessunə ha mai chiesto nulla, ma in cui “ci si è sentite comunque” di adottare determinati atteggiamenti.

Nei casi in cui certi compiti si “assumono spontaneamente” ci sono delle situazioni che finiscono per essere dei potenti attivatori e stabilizzatori:

  • Vedere altre in difficoltà: genitore o genitori in affanno per motivi esterni (es. disagio economico, molto lavoro) o interni (es. lutto, depressione).
  • Parenti “cattive”: presenza di figure negative (es. un altre figliə, unə dei genitori, nonne o zie) che fanno soffrire unə o entrambe genitori.
  • Nessunə altre a farsi avanti: ci si accorge di una lacuna, di qualcosa che andrebbe fatto ma che nessunə fa (es. ribellarsi, consolare, proteggere).

Prendersi determinati ruoli in casa fa sì che si cresca imparando molto bene a:

  • Capire: lo stato emotivo, le necessità e le motivazioni altrui, anche quando illogiche o dannose per sé, a volte si impara anche a prevedere gli effetti collaterali di alcune decisioni.
  • Attivarsi per altre: sempre spontaneamente, sempre ogni volta che si percepisce una necessità, arrivando anche a fare cose al posto loro.
  • Prendersi responsabilità: anche se competerebbero altre, anche “gratis”, anche gravi, anche incongrue rispetto al rapporto, anche molto più grandi di sé.

… e che non si impari molto bene ad:

  • Ascoltarsi: le proprie emozioni, desideri, volontà autentiche spesso rimangono un vero mistero, non è raro che invece di sentirsi triste o arrabbiate si sentano dolori fisici.
  • Attivarsi per sé: agire per sé stesse, per migliorare la propria vita o condizione, è associato ad un senso di imbarazzo o di egoismo
  • Rispettarsi: mettere dei confini, dire di no, fermarsi, fare un passo indietro, allontanarsi da situazioni nocive: tutto questo è molto difficile

Si cresce quindi e queste sono le basi di questa crescita, sono ciò che conosciamo e che riconosciamo come familiari quando ci vengono riproposte, come un vecchio maglione che sappiamo portare anche se ci pizzica da tutte le parti e che quindi indossiamo ancora e ancora, anche quando potremmo ormai lasciarcelo alle spalle e cercare qualcosa di meglio per noi e per la nostra pelle. Infatti, quando ci si trova davanti qualcunə che ci ripropone quelle stesse dinamiche e “ci mette” in quello stesso ruolo:

  • Non ci troviamo “niente di strano” essendo una condizione relazionale in cui siamo abituate a stare da sempre.
  • Il ruolo in cui ci ritroviamo di nuovo è anche l’unico in cui ci sentiamo “brave” e con cui sentiamo di dimostrare affetto.
  • In nome di ciò che “non si è imparato molto bene a fare”, ruoli alterativi a questo metterebbero a disagio, in difficoltà.

Ed è così che anche fuori dalla famiglia ci si ri-infila nel solito ruolo, ma dopo un po’ inizia a pesare perché lo schema in cui si cade porta con sé due caratteristiche scomodissime: la prima è una visione parziale di sé in quanto alcune parti rimangono nascoste lasciando il dubbio sul fatto che siano anch’esse amabili o meno, la seconda è una mancanza di reciprocità dal momento che l’altre non è in grado di fare per sé (e quindi tantomeno per noi) quello che noi facciamo per ləi. E questo succede spesso, in rapporti di qualsiasi tipo, tanto che con il tempo ci si inizia a sentire stupide a “non imparare mai” dall’esperienza. Eppure, tutto questo non è una condanna, anche se uscirne non è facile perché richiede diversi compiti emotivamente difficili da affrontare:

  • Riconoscere il proprio contributo: spesso e volentieri ci si prende un determinato incarico prima ancora che l’altre lo richieda, lo si fa in automatico.
  • Identificare l’origine: mettere in discussione la propria storia e ciò che si è ricevuto (e non) dalla propria famiglia d’origine non è semplice.
  • Tentare qualcosa di nuovo: un nuovo modo di stare al mondo bisognerà inventarselo da sé, con tutta l’incertezza e i rischi che questo comporta, soprattutto per i cambiamenti che potrebbe portare nei rapporti costruiti fino a questo momento.

Posturale: cos’è davvero? Facciamo chiarezza

Nel 2025, il termine “posturale” viene ormai usato per indicare qualunque cosa: dalla ginnastica medica di gruppo, ai corsi in palestra con il personal trainer, fino all’errata postura davanti al computer o alle solette correttive per le scarpe.

Tutto questo perché la parola “posturale” ha perso significato, svuotata dal suo valore originario e travolta da un uso eccessivo e spesso scorretto da parte del marketing, che ne sfrutta l’associazione con l’idea di benessere.

Ma allora, cos’è veramente la rieducazione posturale?

La rieducazione posturale nasce in Francia nel secondo dopoguerra, grazie alla fisioterapista Françoise Mézières, che fu la prima a proporre una visione globale del corpo nella riabilitazione. La sua intuizione rivoluzionò l’approccio terapeutico tradizionale, portando l’attenzione sull’importanza delle catene muscolari.

Successivamente, il suo allievo Philippe Souchard elaborò e ampliò queste teorie, creando il metodo della Rieducazione Posturale Globale (RPG), oggi riconosciuto a livello internazionale e applicato anche fuori dall’Europa – basti pensare ai molti anni in cui lo stesso Souchard ha lavorato in Brasile, contribuendo alla sua diffusione globale.

Oggi, anche se entrambi ci hanno lasciato, il loro contributo rappresenta ancora un fondamento importante per molti professionisti della salute.

Infatti, medici, ortopedici e fisiatri continuano a prescrivere cicli di rieducazione posturale in caso di mal di schiena cronico, scoliosi, lombalgie, cervicalgie e altri disturbi legati alla biomeccanica del corpo.

È quindi importante fare chiarezza: la rieducazione posturale non è un generico allenamento “per stare dritti”, ma una disciplina terapeutica precisa, con obiettivi clinici, basata su valutazioni funzionali e un trattamento specifico,

Quindi, cos’è davvero la rieducazione posturale?

Può sembrare sorprendente per alcuni, ma la rieducazione posturale non nasce come un semplice esercizio terapeutico da svolgere in autonomia. Al contrario, è una terapia manuale a tutti gli effetti, paragonabile per certi versi all’osteopatia o alla fisioterapia manuale, ma distinta da queste per alcuni principi fondamentali.

La rieducazione posturale riconosce un ruolo centrale alla mano del terapista, che agisce in modo correttivo e di stimolazione, ma coinvolge attivamente anche il paziente, che deve partecipare consapevolmente al processo. Respirazione, autoconsapevolezza, mantenimento delle posizioni, stretching (allungamento) e attivazione muscolare sono componenti essenziali della seduta.

Un altro aspetto chiave è l’approccio globale: non si lavora mai su un singolo sintomo isolato, ma sull’intera catena muscolare e funzionale del corpo. Ad esempio, se un paziente lamenta un dolore cronico al collo, la causa principale potrebbe trovarsi lontano dalla zona dolorante, magari nel   diaframma, nel torace, nella colonna lombare, o addirittura nella catena posteriore che coinvolge gambe e piedi.

La rieducazione posturale parte quindi da un presupposto fondamentale: il corpo è un’unità, e ogni compenso o squilibrio, anche distante dalla zona del dolore, può essere parte del problema.

Come si svolge concretamente una seduta di rieducazione posturale?

Una seduta di rieducazione posturale è profondamente diversa da una lezione di ginnastica o da un trattamento passivo. Si tratta di un incontro individuale tra paziente e terapista, della durata di circa 45-60 minuti, in cui ogni gesto, posizione e respiro ha uno scopo preciso.

Tutto inizia con un’attenta valutazione posturale, durante la quale il terapista osserva la morfologia del corpo, i compensi, i blocchi articolari, la respirazione e le catene muscolari coinvolte. Questa fase non si limita alla zona del dolore, ma considera il corpo nella sua globalità, alla ricerca delle cause profonde del disequilibrio.

Successivamente, il terapista guida il paziente in posizioni terapeutiche di allungamento globale, spesso mantenute per diversi minuti, nelle quali si lavora sulla decompressione delle articolazioni, sull’allungamento delle catene muscolari retratte e sulla corretta attivazione muscolare. Durante queste posture, il paziente è chiamato a respirare in modo consapevole, rilassare aree in tensione e mantenere l’attenzione sul proprio corpo.

Il terapista, nel frattempo, interviene manualmente per facilitare il rilascio miofasciale, correggere lievi disallineamenti o sostenere alcune parti del corpo, senza mai forzare, ma accompagnando il corpo verso un equilibrio più funzionale.

La seduta si conclude con una riflessione condivisa tra paziente e terapista: si valutano le sensazioni, si osservano eventuali cambiamenti immediati e si costruisce un percorso personalizzato, spesso integrando consigli posturali per la vita quotidiana o piccoli esercizi da eseguire a casa.

Un concetto fondamentale: la postura non si comanda, si educa

È importante comprendere un principio chiave: non possiamo controllare volontariamente e in modo costante la nostra postura. Pensare di “stare dritti” semplicemente perché ce lo imponiamo è un’illusione. Basta provarci: dopo pochi minuti, senza accorgercene, torniamo alla posizione abituale, spesso scorretta.

La postura non è un gesto cosciente, ma una risposta automatica e profonda del nostro sistema neuromuscolare. È il risultato di abitudini, tensioni, emozioni, respirazione, stile di vita e organizzazione muscolare.

Quindi, non si può correggere a comando, ma si può educare e stimolare. Come? Attraverso terapie mirate, esercizi di allungamento globale, lavoro sulla respirazione e attivazioni muscolari guidate. In questo modo, il corpo viene progressivamente rieducato a trovare un nuovo equilibrio, più sano ed efficiente, senza sforzo cosciente.

Il cambiamento posturale reale non è forzato, ma acquisito: il corpo, se ben stimolato, impara da solo a posizionarsi meglio. E questa è la vera efficacia della rieducazione posturale.

Se sei interessato a prenderti cura della tua postura, o ti è stato indicato di farlo dal tuo medico specialista, contattami.

Dott. Andrea Grimozzi FKT

Riabilitazione pre e post protesi d’anca: perché è fondamentale affidarsi a un fisioterapista

Perché è importante fare fisioterapia

L’anca fa male da mesi. “Prenoti una visita ortopedica“, e alla fine arriva la diagnosi: serve una protesi. L’intervento è fissato tra due o tre mesi. E nel frattempo?

L’operazione di protesi d’anca – come quella di ginocchio – è tra le più comuni in ambito ortopedico. Viene indicata in casi di artrosi avanzata, necrosi avascolare, fratture o gravi limitazioni funzionali e dolorose. Se eseguita nei tempi giusti e con le corrette indicazioni, può offrire risultati eccellenti.

Ma attenzione: non basta operarsi per stare bene. Il successo dell’intervento dipende anche – e soprattutto – dalla riabilitazione fisioterapica, sia prima che dopo l’operazione.

La fisioterapia pre-operatoria: un’opportunità spesso sottovalutata

Una volta fissata la data dell’intervento, molti pazienti restano semplicemente in attesa. Ma questo è un errore. Iniziare subito un percorso fisioterapico può fare una grande differenza:

Migliora il tono muscolare: l’intervento, per motivi neurofisiologici, causa spesso un rapido calo di forza e massa muscolare. Rinforzare preventivamente i muscoli, soprattutto glutei e quadricipiti, aiuta a limitare questo effetto.

Riduce rigidità e aderenze: un’articolazione flessibile prima dell’intervento sarà più facile da recuperare dopo. Si prevengono così limitazioni funzionali e complicanze legate alle cicatrici interne.

Riduce l’ansia: sapere cosa aspettarsi, come muoversi e come affrontare le prime fasi del recupero dà al paziente maggiore fiducia e sicurezza.

A volte evita l’intervento: in alcuni casi, una buona fisioterapia può ridurre il dolore e migliorare la mobilità al punto da rendere per il medico superflua l’operazione.

E dopo l’intervento?

Dopo l’operazione, soprattutto nelle prime settimane, il paziente viene spesso seguito da fisioterapisti in ospedale o in ambito domiciliare. Ma il recupero completo richiede un lavoro costante e prolungato nei mesi successivi:

  • È fondamentale non interrompere il percorso riabilitativo troppo presto.
  • Serve un programma personalizzato che accompagni il paziente verso il ritorno a una vita attiva, autonoma e senza dolore.

Di questo parlerò più approfonditamente in un prossimo articolo.

La fisioterapia, eseguita in modo mirato e con la giusta continuità, è il ponte tra la sala operatoria e il ritorno alla quotidianità. Affidarsi a un fisioterapista esperto non è un dettaglio: è una parte essenziale del trattamento.

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